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IL GIORNO CHE AVREI VOLUTO VIVERE

Con Gandhi nella gioia della vittoria

di Franco La Cecla

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15 agosto 2009

«Io sono nato nella città di Bombay... tanto tempo fa. No, non va bene, impossibile sfuggire alla data: sono nato nella casa di cura del dottor Narlikar il 15 ggosto 1947. E l'ora? Anche l'ora è importante. Beh, diciamo di notte. No, bisogna essere più precisi. Allo scoccare della mezzanotte, in effetti. Quando io arrivai, le lancette dell'orologio congiunsero i palmi in un saluto rispettoso. Oh, diciamolo chiaro; nell'istante preciso in cui l'India pervenne all'indipendenza, io fui scaraventato nel mondo. Ci fu chi boccheggiò. E fuori della finestra, folle e fuochi d'artificio. Pochi secondi dopo, mio padre si ruppe un alluce; ma questo incidente era una bazzecola se paragonato a quel che era accaduto a me in quel tenebroso momento: grazie infatti alle tirannie occulte di quelle lancette dolcemente ossequianti, io ero stato misteriosamente ammanettato alla storia, e il mio destino indissolubilmente legato a quello del mio paese».
Così comincia I figli della mezzanotte di Salman Rushdie, un libro che mi ha sempre fatto venire un'invidia enorme. 15 sgosto 1947. Mi sarebbe piaciuto essere nato in quella stessa data. Quella notte, quella mezzanotte fatidica deve essere stato un momento straordinario. Un immenso continente, grande circa otto volte la Francia, si dichiarava indipendente dalla Gran Bretagna e si proclamava democrazia, la più grande del mondo di allora (e di oggi).
Perché avrei voluto esserci? Perché questa era l'opera di uno degli uomini più strani e geniali che l'umanità del secolo ventesimo abbia avuto, Gandhi. Un avvocato indiano cresciuto in Sudafrica e poi a Londra e trovatosi a inventare e capeggiare la più grande rivolta non violenta della storia, in barba alle teorie dei più efferati nazionalismi, in barba alle ideologie sanguinarie leniniste e alle teorie imperialiste anglo-americane.
L'India era diventata una nazione indipendente, un paese di stati differenti, di centinaia di migliaia di culti diversi, un paese hindù, ma anche musulmano come lo erano i genitori di Salman Rushdie nati in Kashmir, ma anche cristiano, zoroastriano, nestoriano, giainista, buddista, un paese dove le lingue parlate sono migliaia e le divinità adorate milioni. Eppure era anche un paese che aveva espresso una straordinaria classe dirigente.
Se Gandhi era il guru, l'artista di una coesione sociale dal basso che nessuna "avanguardia" leninista avrebbe mai potuto concepire, accanto a lui si muoveva una classe dirigente colta, intelligente, preparata, ma soprattutto, incredibile a dirsi: laica. Nell'ashram di Tagore, un poeta sommo, uno scrittore, un pensatore, un ponte tra Oriente e Occidente, si erano formati personaggi come Jawaral Nerhu, il primo presidente dell'India indipendente, a cui stava a cuore un futuro dell'India al di là del bramanismo delle caste e al di là delle divisioni di religione.
La democrazia indiana fin dal primo momento si era definita "secolarizzata", "anti-comunitaria" nel senso di essere contro un'idea teologica, fondamentalista dello stato. Nerhu fu un grande artefice di questa secolarizzazione ed ebbe una visione modernissima di un continente di differenze, unito da un senso di appartenenza che era appartenere alla cultura hindù, non a una religione. Eppure l'India non rinunciava ad essere la "madre India", la grande India in cui si mescolavano culture, si elaboravano visioni del mondo lontanissime da quelle occidentali eppure alla radice di queste: se è vero che i più grandi grecisti hanno individuato nel pantheon greco le tracce di una classificazione del mondo che veniva dal mondo indiano.
Avrei voluto essere uno di quei "Figli della mezzanotte", di quei bambini nati in quella fatidica data. Nasceva un mondo, nasceva in mille contraddizioni, ma era nuovo, nuovo anche rispetto al secolo dei comunismi, dei nazismi e dei fascismi. E nasceva con la dignità di un continente che voltava le spalle a un ormai piccolo paese colonizzatore che aveva cercato d'imbrigliare l'India nelle proprie categorie, ma poi quelle stesse categorie riduttive avevano fatto esplodere il suo impero. Rushdie dice che quella notte a mezzanotte sono nati bambini dotati di poteri strani, magici ma anche assurdi: «Insomma tra i bambini della mezzanotte c'erano infanti capaci di trasformarsi, di volare, di profetizzare, di compiere incantesimi. La realtà può avere contenuti metaforici. Ma questo non la rende meno reale. Nacquero mille e uno bambini; ci furono mille e una possibilità che in precedenza non si erano mai presentate contemporaneamente in un unico luogo; e ci furono mille e uno vicoli ciechi. I bambini della mezzanotte possono essere molte cose a seconda del vostro punto di vista: si può considerarli l'ultimo sprazzo di tutto ciò che c'era di antiquato e di retrogrado nella nostra nazione infestata da miti, e ritenere la loro disfatta totalmente auspicabile nel contesto di una modernizzata economia novecentesca; o la vera speranza di libertà, ora definitivamente spenta; ma non devono mai diventare la creazione bizzarra di una mente sconnessa e malata».
Avrei voluto essere testimone (ma come, appena nato?) della prima riunione del Congresso, quella a cui partecipò Gandhi, piena di entusiasmo, ma anche strana, per quanto ci racconta V.S. Naipaul. Due congressisti fecero i propri bisogni nel proprio scranno, e Gandhi che non era avvezzo alle usanze indiane in questo campo rimase scandalizzato, sconvolto. L'India era, è anche questo, un paese immenso pieno di assurde contraddizioni, di miseria e nobiltà, di modernità e caste, di libertà estreme e costumi repressivi. Eppure l'India come democrazia c'è ancora oggi ed è un paese a cui non si può non guardare con speranza, quella speranza che Rushdie teme venga spenta, ma che lui stesso continua ad alimentare nei suoi romanzi e nell'opera di sprone e dialogo che conduce con la sua India.
  CONTINUA ...»

15 agosto 2009
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